Aree d'intervento

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Psicoterapia individuale

La psicoterapia individuale consiste in un percorso che pone al centro l’individuo nella sua totalità.
 
Favorisce una maggiore comprensione di sè e del proprio funzionamento psichico nelle diverse sfere di vita, ovvero affettivo-emotiva, relazionale, sociale, lavorativa e creativa.
 
Questa conoscenza profonda consente di fare luce, nonché di portare a coscienza, le proprie dinamiche psichiche e i propri vissuti inconsci con la finalità di favorire la piena espressione della propria personalità.
 
Ogni sofferenza psichica è come un nodo, sciolto il quale è possibile avanzare lungo la strada della propria crescita ed evoluzione personale.
 
  • Approccio analitico junghiano.
  • Percorso rivolto ad adulti e giovani adulti, sia online che in presenza.
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Psicoterapia di coppia

La psicoterapia di coppia è un percorso terapeutico all’interno del quale il terapeuta cerca di favorire un dialogo efficace e costruttivo tra i partner mediante un lavoro sulle loro modalità comunicative, espressivo-emotive, relazionali e comportamentali. In una visione in cui la coppia è costituita da 3 elementi, ovvero due individui singoli che solo in un secondo momento diventano coppia (2+1), diventa fondamentale lavorare sulle singole individualità quanto sull’unione delle stesse.

  • Approccio integrato psicodinamico, sistemico-relazionale e bioenergetico in cui trovano spazio le dinamiche di coppia, le modalità relazionali e il vissuto del singolo e l’espressività dei corpi.
  • Percorso rivolto ad adulti e giovani adulti, sia online che in presenza.

Mental training

Il mental training sportivo consiste in un percorso strutturato il cui focus si pone sull’atteggiamento e sul funzionamento psichico dell’atleta. Dopo una prima fase di riconoscimento e analisi di punti di forza e di debolezza, si costruisce insieme un piano di obiettivi a breve, medio e lungo termine. In seguito, grazie all’utilizzo di tecniche e strumenti specifici di mental training, si lavora insieme con la finalità di rafforzare capacità mentali e funzioni esecutive (concentrazione, attenzione, memoria, immaginazione,…), di imparare a riconoscere e gestire le proprie emozioni e di favorire l’acquisizione di specifiche skills (o abilità) come quelle di problem solving, gestione dell’errore,..

Porre l’attenzione sulla prestazione attuale al fine di renderla ottimale per l’individuo.

Possibilità di intraprendere percorsi di mental training e psicoterapia specifici finalizzati al recupero da infortunio sportivo e non. Approccio psicodinamico integrato con specifiche tecniche di visualizzazione, rilassamento e centratura sul corpo.

  • Percorsi di mental training rivolti sia ad atleti professionisti che a dilettanti e ad amatori.

Secondo il PDM-2 (Manuale Diagnostico Psicodinamico) la personalità è ciò  che uno è e non ciò che uno ha. Pertanto, racchiude in sé non solo il comportamento osservabile ma anche processi psichici interni come motivazioni, fantasie, modi di fare esperienza di sé e degli altri, modalità specifiche di sentire e pensare, modalità di coping, specifici meccanismi di difesa, etc..

Porre attenzione all’organizzazione di personalità diventa fondamentale non solo ai fini di una comprensione profonda del paziente ma anche per poter strutturare il trattamento terapeutico. Tale struttura ci fornisce informazioni fondamentali rispetto al funzionamento di ciascun individuo e, per questo, può diventare come una mappa o una bussola che ci consente di orientare ciascun percorso di terapia. Tutti abbiamo una struttura di personalità e individuare lo specifico livello di organizzazione (sano, nevrotico, borderline ad alto o basso funzionamento, psicotico) ci consente di acquisire informazioni rispetto alle modalità con cui ciascun paziente interagisce con il proprio mondo interno e con quello esterno, quali meccanismi di difesa agisce più frequentemente, com’è il suo esame di realtà e quanto la sua identità è strutturata; diventando così uno spettro di gravità della complessità del funzionamento di personalità. Tale livello di organizzazione della personalità, che si pone lungo un continuum da sano a psicotico, è trasversale a 12 diversi stili o tipi di personalità:

  1. Personalità Depressive (inclusi ipomaniacali e masochismo)
  2. Personalità Dipendenti
  3. Personalità Ansioso-Evitanti e Fobiche
  4. Personalità Ossessivo-Compulsive
  5. Personalità Schizoidi
  6. Personalità Somatizzanti
  7. Personalità Isterico-Istrioniche
  8. Personalità Narcisistiche
  9. Personalità Paranoidi
  10. Personalità Psicopatiche
  11. Personalità Sadiche
  12. Personalità Borderline.

È  importante evidenziare che questi stili o tipi non definiscono la presenza o assenza di patologia ma consentono di individuare temi psicologici centrali sui quali è possibile lavorare insieme al paziente in terapia. Immaginandoli sempre lungo un continuum che va da sano a patologico, elementi come la rigidità, la pervasività e la stabilità nel tempo di tali temi e caratteristiche possono definire la presenza di un disturbo di personalità (patologico) piuttosto che di un tratto (sano). Tutti, dunque, possediamo uno stile di personalità ma possiamo parlare di disturbo quando il grado di gravità e rigidità è tale da compromettere il funzionamento dell’individuo causando sofferenze e a se stesso e/o agli altri.

Un’adeguata conoscenza del funzionamento del paziente nelle diverse aree di vita (relazionale, sociale, lavorativa, creativa,..), quindi, consente di individuare uno stile di personalità e un livello di gravità al fine sia di impostare un trattamento efficace sia di comprendere come mai si è ripetutamente vulnerabili ad un certo tipo di sofferenza. In un’ottica in cui la diagnosi di personalità è evolutiva, partire da essa ed utilizzarla sia come cornice che come bussola, ci consente non di modificare la personalità ma di acquisire maggiore consapevolezza e di imparare a gestire gli aspetti più complessi.

Quella terapeutica è anch’essa una relazione e, pertanto, può diventare lo spazio primario in cui fare esperienza di sé e del rapporto con l’altro.

I disturbi dell’umore sono così definiti perchè caratterizzati da un’alterazione del tono dell’umore che può variare e oscillare da un lato da eccessiva tristezza fino alla depressione e dall’altro da eccessiva euforia/esaltazione fino alla mania. Possiamo definirli anche disturbi dell’affettività in quanto l’umore racchiude la tonalità affettiva che ciascun individuo esperisce e che, di conseguenza, gli altri possono notare.

Possiamo immaginare tali disturbi come posti lungo un continuum ai cui poli opposti troviamo rispettivamente disturbi unipolari (ovvero caratterizzati dalla presenza costante e cronica di un tono depressivo) e bipolari (ovvero caratterizzati dall’alternanza tra stati depressivi e maniacali o ipomaniacali). Lungo questo continuum possiamo collocare i seguenti disturbi:

  • Depressivo maggiore, in cui i sintomi depressivi sono presenti da almeno due settimane
  • Depressivo persistente (o distimia), caratterizzato da umore cronicamente deflesso in quanto i sintomi depressivi sono presenti da almeno due anni
  • Disregolazione dell’umore dirompente, diagnosticabile dai 6 ai 18 anni e caratterizzato prevalentemente da rabbia e scoppi di collera rivolti verso l’esterno
  • Disforico premestruale, caratterizzato da alterazione sia dell’affettività (sbalzi di umore, marcata tristezza, irritabilità o ansia elevata) che del funzionamento nello svolgimento di attività quotidiane. Sintomi presenti nella settimana precedente le mestruazioni
  • Bipolare I, caratterizzato da almeno un episodio maniacale che può essere preceduto o seguito da episodi ipomaniacali o depressivi maggiori
  • Bipolare II, caratterizzato da uno o più episodi depressivi e almeno un episodio ipomaniacale
  • Ciclotimico, in cui per almeno due anni ci sono stati periodi con sintomi ipomaniacali e periodi con sintomi depressivi in cui entrambi non soddisfano i criteri rispettivamente per un episodio ipomaniacale nè depressivo.

Gli episodi depressivi (o depressione) sono caratterizzati dalla presenza di umore depresso (tristezza profonda e immotivata come fonte di elevata sofferenza) e/o da perdita di interesse e piacere nello svolgimento delle attività abituali. A questo si aggiunge un’inibizione dell’attività psichica, nello specifico si possono presentare scarsa energia o rallentamento psicomotorio, apatia, calo del desiderio sessuale, alterazione o compromissione delle funzioni cognitive (attenzione, concentrazione, memoria,..), difficoltà nel prendere decisioni, disturbi del sonno (insonnia o ipersonnia), scarso appetito o iperfagia, atteggiamenti procrastinatori e oppositivi, focalizzazione sul passato, persistente svalutazione di sé, senso di colpa come affetto dominante e talvolta pensieri di morte. In alcuni casi si può manifestare anche una depressione caratterizzata da ansia in cui il profilo ansioso manifesto potrebbe in parte nascondere un nucleo depressivo.

Gli episodi ipomaniacali e maniacali sono caratterizzati da umore persistentemente elevato, espanso o irritabile e da un aumento anomalo e duraturo dell’energia e dell’attività finalizzata (sociale, lavorativa, scolastica o sessuale). Durante tali episodi l’individuo può avere autostima particolarmente elevata e senso di grandiosità che lo spingono al di là delle proprie capacità e dei propri mezzi, allegria ed euforia immotivate, ottimismo costante (senza alcuna previsione di possibile insuccesso, sconfitta, danno o pericolo), diminuito bisogno di sonno, maggiore loquacità e fuga delle idee (ideazione accelerata in cui i pensieri si succedono rapidamente e senza un filo conduttore), impulsività, agitazione psicomotoria e coinvolgimento eccessivo in attività potenzialmente dannose (acquisti incontrollati, investimenti finanziari avventati, promiscuità,..). Nell’episodio ipomaniacale tali sintomi si manifestano per la maggior parte del giorno per almeno 4 giorni , mentre nell’episodio maniacale per almeno 1 settimana. In quest’ultimo, inoltre, l’alterazione dell’umore può essere tale da compromettere in modo marcato il funzionamento sociale, relazionale e lavorativo o da richiedere l’ospedalizzazione.

Depressione e mania possono alternarsi o presentarsi come stati misti. Da un punto di vista psicodinamico depressione e mania si possono considerare come stati dell’umore patologici aventi un medesimo nucleo incentrato sul senso di perdita. Si potrebbero considerare come due facce della stessa medaglia in cui il paziente depresso si sente colpevole della perdita (agendo come meccanismo di difesa principale il rivolgimento con il sé) mentre il paziente maniacale nega l’esistenza della perdita (agendo come meccanismo di difesa principale il diniego). La tristezza, dunque, diverrebbe l’affetto centrale in entrambi con la differenza che negli episodi depressivi trova una manifestazione mentre in quelli maniacali e ipomanicali viene negata.

L’alterazione del tono dell’umore acquisisce grande rilevanza in quanto può essere causa non solo di uno stato di elevata sofferenza psicologica ma anche di una radicale modifica del funzionamento nelle diverse aree di vita (familiare, relazionale, sociale, lavorativo,..) fino ad impedire lo svolgimento di attività quotidiane. Un disturbo dell’umore, infatti, può comportare non solo un’alterazione dell’affettività e dell’emotività ma anche della sfera cognitiva, psicomotoria e neurovegetativa. Se presente, dunque, all’inizio di un percorso terapeutico diventa essenziale accogliere e porre al centro tali stati di profonda tristezza con il fine di provare a comprenderli, riconoscerli e a dargli un significato. Inoltre, in presenza di specifici disturbi dell’umore cronici o con un impatto rilevante sul funzionamento dell’individuo, può diventare fondamentale e primario un intervento psicofarmacologico che consenta di stabilizzare l’umore favorendo così anche lo svolgimento di un percorso psicoterapeutico in parallelo.

La dipendenza da sostanze (alcol, sostanze stupefacenti, nicotina,..) e da comportamenti (gaming, gioco d’azzardo, shopping, internet e social network,..) consiste in un crescente bisogno fisico e mentale o di assunzione di un determinata sostanza o di messa in atto di uno specifico comportamento. Infatti, si può parlare di dipendenza quando:

  • la sostanza o un dato comportamento diventano prioritari e fondamentali nella vita dell’individuo,
  • la soglia di tolleranza (quantità di sostanza o di ore investite necessarie per stare bene) aumentano in modo esponenziale,
  • l’uso della sostanza o la messa in atto del comportamento influenzano in modo significativo l’umore e hanno un impatto negativo che può comportare compromissione e danneggiamento della sfera relazionale, sociale e professionale,
  • sono presenti sintomi fisici (tremori, nausea, vomito, emicrania, tachicardia, respiro affannoso,..) e psicologici (confusione, difficoltà di concentrazione, insonnia, irritabilità, sospettosità, sbalzi d’umore..) di astinenza associati alla riduzione del comportamento o della sostanza,
  • dopo un periodo di astinenza si è esposti a rischio di ricaduta.

Il bisogno della sostanza o della messa in atto di un determinato comportamento, dunque, per l’individuo diventa incontrollabile ed essenziale per sentirsi bene. Quando proviamo sensazioni di piacere e gratificazione, infatti, siamo indotti a ripetere il comportamento che le ha generate. Si parla così di sistema della ricompensa o reward system per indicare una sorta di dipendenza psicologica da ciò che suscita in noi emozioni positive e appaganti. In questo gioca un ruolo importante la dopamina, un neurotrasmettitore in grado di influenzare il nostro comportamento, andando oltre quelle che potrebbero essere semplici motivazioni fisiologiche, come la ricerca di cibo spinta dalla fame che attiva una ricompensa cosiddetta naturale. Infatti, tutte le volte che mettiamo in atto un comportamento che genera in noi sensazioni piacevoli e positive, il nostro cervello rilascia un certo quantitativo di dopamina, capace di mobilitarci per ottenere una ricompensa, fungendo da rinforzo allo stimolo. Il funzionamento di tale circuito, quindi, si fonda sulla ripetizione di quelle attività che generano benessere e piacere, innescando un meccanismo di dipendenza da tali sensazioni. Come per ogni dipendenza, l’assunzione di una determinata sostanza o la ripetizione di un comportamento inducono sensazioni di euforia e piacere che favoriscono la produzione di endorfine che, a loro volta, favoriscono il rilascio della dopamina.

Uscire dal circolo vizioso del sistema della ricompensa e delle dipendenze che è in grado di innescare richiede primariamente una forte consapevolezza, motivo per cui un aiuto psicoterapico (e talvolta anche farmacologico) può essere fondamentale per osservare, riconoscere, gestire e porre fine al comportamento che genera assuefazione patologica. All’interno di un percorso di psicoterapia incentrato sulle dipendenze risulta essere prioritaria la motivazione che spinge il singolo paziente a chiedere aiuto e che si impegna, quindi, a cercare di rimanere astinente il più possibile da sostanza e/o messa in atto di specifico comportamento. Da un punto di vista trattamentale, l’intervento avviene su tre livelli:

  • cognitivo, mediante l’individuazione di pensieri disfunzionali (”non ce la farò mai”, “non valgo nulla”) ed eventuali schemi maladattivi
  • emotivo, mediante osservazione, riconoscimento e gestione delle emozioni associate a specifici pensieri/schemi e comportamenti
  • comportamentale, mediante osservazione e presa di coscienza dei comportamenti disfunzionali e successivo apprendimento di nuove strategie di problem solving e fronteggiamento funzionale e adattivo.

Diventa essenziale, dunque, aiutare il paziente a comprendere quali sono le variabili che innescano, facilitano e mantengono il proprio comportamento disfunzionale e quali sono i pensieri e le emozioni ad essi associati: imparare a riconoscere i fattori di rischio consente non solo di incrementare la capacità di fronteggiamento degli stessi ma favorisce anche il lavoro sulle conseguenze di tali comportamenti che spesso si rivelano rinforzanti e quindi fattori di mantenimento e ostacolo al trattamento.

Stress e ansia sono due termini che, spesso, vengono sovrapposti, confusi o utilizzati come sinonimi credendo erroneamente che si tratti di due stati psicologici uguali e causati dai medesimi fattori.

Secondo il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) possiamo  definire lo stress come“Lo schema di risposte specifiche e non specifiche che una persona mette in atto a seguito di eventi stimolo che disturbano il suo equilibrio o lo mettono a dura prova o eccedono la sua capacità di farne fronte”. Lo stress, dunque, sembra avere a che fare con il modo in cui affrontiamo stimoli esterni o interni che, a loro volta, possono assumere un ruolo di trigger o fattore scatenante. Indipendentemente da come vengano definite tali variabili, ciò che diventa determinante è la nostra capacità di fronteggiare tali stimoli potenzialmente stressanti: quando ci sentiamo sotto pressione spesso fatichiamo a vedere e quindi ad accedere alle nostre risorse (capacità di coping/fronteggiamento), fattore che può essere determinante nell’incremento della secrezione di cortisolo (ormone steroideo che svolge un ruolo cruciale nella risposta del corpo allo stress) generando così stress. Maggiore è la pressione percepita e maggiore sarà lo stress. Alla luce di ciò, dunque, possiamo definire lo stress come una risposta psicofisica dell’organismo a fronte di incarichi, compiti o richieste della vita quotidiana che vengono percepite come eccessive o talvolta soverchianti.  Di conseguenza, quando la circostanza stressante nel presente viene meno, spesso si può osservare una riduzione o anche una scomparsa dello stress collegato.

L’ansia, a differenza dello stress, può essere considerata come uno stato diffuso di inquietudine, apprensione o paura che permane anche quando non è presente una componente contingente; motivo per cui spesso può non essere semplice o immediato individuare in maniera autonoma le cause di tale stato d’animo o definire per quale motivo ci sentiamo ansiosi. Questo insieme di emozioni e stati d’animo può essere accompagnato sia da manifestazioni fisiche come sudorazione, tremori, tachicardia, nausea, dolore allo stomaco sia da sensazioni corporee come elevati livelli di attivazione psicofisica, fiato corto, senso di pesantezza sul petto, nodo alla gola.

Il DSM 5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) definisce l’ansia come “L’apprensione anticipatoria di un pericolo futuro accompagnata da un sentimento di preoccupazione, angoscia e/o sensazioni somatiche di tensione. Il focus del pericolo può essere interno o esterno”. Dunque, si può evidenziare come generalmente l’ansia abbia una componente anticipatoria che porta a definirla come una risposta preventiva a determinate situazioni in cui l’individuo prova uno stato di apprensione diffuso per qualcosa di negativo che potrebbe accadere in futuro ma che ancora non si è realmente verificato. Pertanto, a differenza dello stress che a livelo temporale si colloca prevalentemente in una dimensione presente, spesso lo stato ansioso è determinato da un’eccessiva proiezione nel futuro che tende a diventare sempre più spaventoso, terrifico e catastrofico. Talvolta i livelli di ansia raggiungono un carico psicologico, emotivo e fisico tale da portare all’attacco di panico, ovvero un evento in cui sono presenti ansia molto intensa, tachicardia, fiato corto e pensieri legati alla paura di morire e/o di impazzire. L’attacco di panico è caratterizzato da imprevedibilità in quanto può presentarsi in qualsiasi momento, a volte inspiegabilmente, e spesso può essere associato a periodi di maggiore stress e stanchezza. Nella persona che manifesta attacchi di panico esperienze precedenti possono aver determinato l’instaurarsi di specifici schemi emotivi e cognitivi che rimandano alla potenziale pericolosità di certe situazioni e, conseguentemente, alla sensazione di non avere le capacità necessarie per poterle fronteggiare. Queste esperienze iniziali spesso vengono successivamente generalizzate, per cui il rischio è che qualsiasi situazione nuova possa essere vissuta come potenzialmente pericolosa, e quindi possa attivare quel vissuto di paura e di pensieri fobici concomitanti, che innescano poi l’attacco di panico.

Uno dei meccanismi di difesa più comuni che alimenta la risposta ansiosa è l’evitamento: in presenza di uno stimolo emotivamente disturbante, infatti, la maggior parte delle persone cercherà di scappare per non sentire la sofferenza; evitandolo però non facciamo altro che confermare la pericolosità della situazione, alimentando sia le credenze relative alla nostra incapacità di fronteggiamento che il vissuto fobico.

In conclusione, dunque, laddove lo stress può essere ricondotto più facilemente a cause specifiche (la maggior parte delle quali sono fattori esterni riconoscibili), è associato prevalentemente a sensazioni quali frustrazione, stanchezza e nervosismo ed è fortemente correlato all’impatto di situazioni che si verificano nel  presente; l’ansia invece, in quanto stato diffuso e talvolta indefinito, rende più complessa e difficile l’identificazione delle cause (spesso associate a fattori interni all’individuo e talvolta indifferenziati), è prevalentemente associata ad emozioni e stati d’animo quali paura, apprensione ed inquietudine e presenta una componenente anticipatoria dominante che porta l’individuo a preoccuparsi e proiettarsi in un futuro catastrofico che impedisce di vivere il presente.

Quando stress e ansia superano i livelli di soglia definiti accettabili, divenendo un grande ostacolo allo svolgimento della vita quotidiana, diventa prioritario rivolgersi ad un terapeuta specializzato con il quale osservare ciò che sta accadendo e lavorare insieme su tre livelli: corporeo, emotivo e cognitivo. Partendo dal corpo, infatti, è possibile sperimentare che tale emozione/stato d’animo/sensazione non è così pericolosa ed è solo abbassando l’intensità di questa esperienza emozionale o sensoriale che, in seguito, è possibile intervenire a livello cognitivo con un ridefinizione positiva del pensiero. Centrale all’interno della terapia rimane sempre la cornice, ovvero la presenza di un setting strutturato, un luogo sicuro e una relazione terapeutica basata sull’alleanza in cui il paziente sente di poter fare esperienza di sé.

Mental training, recupero post trauma sportivo e percorsi di crescita personale

Si tratta di percorsi rivolti prevalentemente ad atleti professionisti, dilettanti e amatori.

Il mental training sportivo consiste in un percorso strutturato il cui focus si pone sull’atteggiamento e sul funzionamento psichico dell’atleta. Dopo una prima fase di riconoscimento e analisi di punti di forza e di debolezza, si costruisce insieme un piano di obiettivi a breve, medio e lungo termine. In seguito, grazie all’utilizzo di tecniche e strumenti specifici di mental training (visualizzazione, rilassamento e centratura sul corpo,..), si lavora insieme con la finalità di rafforzare capacità mentali e funzioni esecutive (concentrazione, attenzione, memoria, immaginazione,..), di imparare a riconoscere e gestire le proprie emozioni e di favorire l’acquisizione di specifiche skills (o abilità) come quelle di problem solving, gestione dell’errore.

Attenzione sulla prestazione attuale al fine di renderla ottimale per l’individuo.

Alcuni percorsi di mental training sono integrati con la psicoterapia con l’obiettivo di favorire l’osservazione, l’elaborazione e il superamento del trauma derivante dall’infortunio sportivo che, spesso, diventa fonte di sofferenza a tal punto da influire nella quotidianità e da impedire un buon recupero psicofisico e un funzionamento mentale ottimale durante la prestazione.

Talvolta i percorsi di mental traning e i relativi strumenti possono essere inseriti all’interno di percorsi di psicoterapia incentrati su autostima e crescita personale, finalizzati quindi ad una comprensione di sè e del proprio funzionamento mentale e al riconoscimento e valorizzazione delle risorse personali.

Psicologia e Psicoterapia

Le domande più comuni

Che differenza c’è tra psicologo, psicoterapeuta e psichiatra?

Lo psicologo è laureato in psicologia abilitato ad esercitare la professione mediante esame di stato, lo psicoterapeuta è uno psicologo abilitato che ha svolto una scuola quadriennale di specializzazione che lo forma alla psicoterapia. Lo psichiatra, invece, è un medico specializzato in psichiatria e, a differenza di psicologi e psicoterapeuti, può prescrivere psicofarmaci.

Le sedute si svolgono solo in studio o anche online?

A seconda delle necessità individuali è possibile svolgere i colloqui sia in studio in presenza che online.

Quanto costa una seduta?

Dipende se è una seduta di psicoterapia individuale o di coppia oppure se è un colloquio di mental training in studio o sul campo. Le tariffe vengono concordate e esplicitate all’inizio del percorso, secondo l’art. 23 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani.

La parcella è detraibile?

Si, essendo una prestazione socio-sanitaria.

Quanto dura una seduta?

Dipende se è una seduta di psicoterapia individuale o di coppia, ovvero rispettivamente 60 e 90 minuti.

Qual è la durata di un percorso di psicoterapia?

E’ difficile fare una previsione attendibile in quanto le variabili coinvolte sono molteplici e il percorso viene strutturato insieme. E’ fondamentale fissare degli obiettivi terapeutici e, sulla base degli stessi, valutare e ridefinire insieme modalità e tempi.

Se la terapia non funziona?

L’art. 26 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani prevede che “lo psicologo valuti ed eventualmente proponga l’interruzione del rapporto terapeutico quando constata che il paziente non trae alcun beneficio dalla cura e non è ragionevolmente prevedibile che ne trarrà dal proseguimento della cura stessa. Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a ricercare altri e più adatti interventi”.

Se non vengo al colloquio devo pagare?

In caso di colloquio mancato senza preavviso, il costo della seduta verrà aggiunto nella parcella successiva. Come da contratto terapeutico, si richiede al paziente un preavviso di 24 ore, salvo casi di emergenza. La disdetta può essere effettuata tramite messaggio.

Qual è la frequenza dei colloqui?

Generalmente all’inizio del percorso le sedute hanno cadenza settimanale per poi diminuire nel corso del tempo. Importante considerare che ogni percorso è a sé stante e, pertanto, non è possibile fornire una risposta universalmente valida.

Lo psicologo può rivelare informazioni sensibili?

Il Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (di cui art.11, 12, 13, 15, 16) obbliga lo psicologo al segreto professionale, tuttavia il professionista può “valutare con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o terzi” (art.13).

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